Punti di Vista

dal catalogo "popower

30/04/2011

testo critico di Oreste Lo Pomo

 

Era il 1962 quando Andy Warhol cominciò la serie di stampe Campbell’s Soup e Disaster. Serigrafie che lo consacrarono come il "Papa del Pop". Le immagini modificavano radicalmente le concezioni convenzionali sull’arte e l’estetica. Al centro dell’attenzione non c’erano più la creatività e l’originalità ma i prodotti industriali più in uso nella società dei consumi, presentati come opere d’arte. Era il momento del trionfo della riproduzione di massa, quella riproduzione che si materializzava in un‘arte che rifletteva lo stile di vita contemporaneo. Si concretizzava, così, il risultato di un vero e proprio uragano che portò sulla scena artistica degli Stati Uniti degli anni sessanta la Pop art con un’ispirazione che prendeva spunto dagli oggetti di uso quotidiano e dalle immagini della cultura di massa convertendoli in opere d’arte. Pop come popular, come contrapposizione ironica all’espressionismo astratto, come tentativo di ricerca di nuovi radicali principi rivolgendo l’attenzione al dilagare del materialismo e della cultura consumistica, oscillando tra la glorificazione e la critica della cultura americana di massa, dei suoi prodotti di marca e delle sue celebrità. Un processo che si spingeva fino all’assunto di creare l’artista-macchina che produce su scala industriale senza emozione. Pat Hackett diceva che il punto di forza di Andy era togliere il sentimento dalla pittura. Un snodo fondamentale ma anche una sorta di paradosso che fa’ suo un altro Andy, l’artista di Monza nato nel 1971 e che diventa profeta del potere dell’arte pop che trasmigra in un viaggio dove le forme della riproducibilità, le icone del genio di Pittsburgh vengono recepite e riprese con una originalità che (se nell’assunto della contrapposizione all’espressionismo dei nouveaux realistes degli anni 60 andava abiurata) nelle opere dell’artista lombardo si fa’ prepotentemente largo attraverso quella dimensione visionaria, quasi allucinogena che ci porta in una realtà parallela che - dice bene

Chiara Argentieri - somiglia, ma non riproduce, quella conosciuta. Pittura di icone nelle quali i miti della cultura americana si intrecciano con i totem della middle-class in un tutt’uno con i simboli del boom economico italiano. Cartoon di Disney e opere d’arte, Paperino e Paperina, la Fiat 500, la Venere di Milo, Marcello Mastroianni e Sofia Loren, Bush e Marilyn (l’icona delle icone giusto tributo a Warhol genio della lampada), Isabella Rossellini, Condoleezza Rice e Belen Rodriguez. Miti del passato e nuove star, simboli di quel potere pop che non muore ma si rigenera nella ricerca di nuovi idoli riportati su tela in modo psichedelico, visionario, originale (nell’accezione di differenziazione rispetto alle indicazioni concettuali degli albori) e intervallati da quadri riassuntivi di una prospettiva d’insieme in technicolor che supera l’HD e diventa 3D come nella rivisitazione della "Grande Mela" tra hip hop, soubrette, yellow taxi e l’immancabile statua della libertà. Una suggestione cherivive anche nel sogno della Vespa, dove il simbolo dell’Italia motorizzata degli anni 50 si intreccia in un gioco di parole "verspa dream" con una sorta di riferimento alla poesia con richiami al "Cupido" della tradizione classica. Ma è sul design che Andy 71 riapre lo show-room delle tentazioni: dal videogame alla radio, al penny pop, (mitico, estroso mangiadischi), fino ad arrivare al "diabolik box", una specie di scatola magica che ci introduce nel mondo del fumetto di Diabolik ed Eva Kant. Ma la forza della pittura di Andy va oltre e si caratterizza per una peculiarità cromatica che a volte può sembrare esagerata ma che, invece, è in sintonia con quella dimensione tridimensionale onirica che rappresenta l’elemento aggiuntivo di forte impatto emotivo e che è il carattere dominante ed innovativo

del Pop power.