Punti di Vista

dal catalogo "vitaoltrepop"

01/05/2011

testo critico di Nicola Davide Angerame

 

VITAOLTREPOP. Intervista con Andy

di Nicola Davide Angerame

 

Tu sei passato alla storia come co-fondatore dei Bluvertigo ma come
nasce Andy pittore?
 


Paradossalmente, sono accademicamente più illustratore che musicista, ho
studiato da illustratore ed ho iniziato individuando un mio codice illustrativo
fatto di campiture piatte e di bordature nere, fatto di sintesi delle forme
e sintesi dei piani. Era qualcosa che facevo in modo spontaneo. Infatti volevo
fare l'illustratore ed ho fatto una breve esperienza, poi è arrivata la musica.


Come hai incrociato la musica?


Conoscendo Morgan, che è stato il mio primo insegnante di armonia. Lui
aveva avuto un percorso più accademico, di conservatorio. Quando siamo
entrati in contatto nel 1988 io sono stato lo “sballacomplice”. In vent'anni
di collaborazione non mai ho smesso di dipingere, comunque.

Come si influenzavano reciprocamente la tua musica e la tua pittura? 


Mi è sempre piaciuto lavorare con i samples, con il campionamento. In pittura
si tratta di campioni di realtà iconografica, ma il meccanismo è simile.
Dipingo allo stesso modo con cui scrivo canzoni, colonne sonore o sonorizzazioni.
Da dove nasce questa tua passione per il campionamento? Chi guardavi

con interesse quando stavi iniziando?


Kenny Scharf e quell'America del graffitismo e della street art che produceva
la cultura underground. Mi piaceva come Scharf usava la rigenerazione
del ricordo e delle forme traendo sintesi che poi sono finite nelle
gallerie d'arte. Da piccolo seguivo anche Keith Haring, ma si tratta di nomi
passati alla storia tra decine e decine di street artist che a quel tempo erano
un sottobosco culturale. Oltre a loro c'erano anche Toxic, che ho avuto
l'onore di conoscere un paio di anni fa. A prescindere del sogno americano,
che non mi interessa, mi piace il fatto che che la cultura underground potesse
diventare mainstream.


Guardavi anche alla Pop Art, come fonte d'ispirazione?

 

Magari Roy Lichtenstein,
che allora una rivista d'arte aveva definito come il peggior


pittore d'America?

Sì, ho guardato molto alla sua arte come percorso operativo, anche se poi
a livello d'ispirazione io mi considero un surrealista. Coltivo uno sguardo
inconscio, in cui l'immagine è la risultante di codici onirici, anche quando
sono spesso uniti alle immagini dalla televisione.


Già, quanto ha influito la tv sul tuo percorso creativo?


Tantissimo, ricordo che guardavo per ore il monoscopio, incantato dal suo fischio
continuo. Ce l'ho scolpito nel cervello. Per un bimbo iperattivo e giocoso
come me, la tv ha voluto dire cartoni animati. Li ho visti tutti ed ho
fatto in tempo a vedere Gustavo, un cartoon polacco semplicissimo del 1974.
Poi arrivò tutto il fermento dei manga giapponesi, con questi eroi che centrano
poco con il mio modo di sviluppare la spiritualità, visto che non mi riconosco
nella violenza. Però per me erano giocattoli giganti, mi affascinava
come dall'essere umano potessero tirare fuori degli androidi giganti.

Negli anni Ottanta poi arriva la pubblicità...


Con la moda, la pubblicità esalta la bellezza femminile, che è una delle
mie ossessioni maggiori. Ma la moda per me era altra cosa. Vedi, ci sono
personaggi che unificano tutto iconograficamente, come i Kraftwerk. La
loro copertina di Men Machine, con quelle camice rosse, pantaloni e cravatta
neri, erano il punto massimo della moda per me. Anche il video Life
on Mars di David Bowie lo era. Quella era la moda che mi interessava. Mi
piaceva anche il lavoro impressionante che Thierry Mugler realizzava nelle
sue sfilate: erano rappresentazioni sceniche incredibili, era teatro, luci,
suoni, visioni. Issey Miyake aveva inventato tessuti microplissettati che potevi
appallottolare; l'abito diventava una scultura per il corpo ed entrava nel
mondo dell'arte contemporanea. Era questa la moda che mi interessava.
Poi, del gessato di Dolce e Gabbana, chi se ne frega.

Gli anni Ottanta sono stati anni molto caratterizzati, come è cambiato
il tuo mondo dopo questi anni?


Sento che una grande astronave è calata sul pianeta. L'intuizione di un singolo
una volta poteva diventare pop, cioè popolare e riconosciuta da molta
gente, perché rappresentava un'intenzione efficace portata avanti da un
individuo che sintetizzava a suo modo il senso del bello ed in quel modo
tanta gente si riconosceva. Oggi ci si siede a tavolino per capire il segmento
di mercato, il target di pubblico e di possibili acquirenti, e poi capire cosa
fare. L'intuizione viene dopo.


È tutto più freddo e meno spontaneo?


Anche nel mondo dell'arte è così. Vedi artisti che sono trattati come se fossero
quotati in borsa. Anche nomi lungimiranti, alla Jeff koons, sono soggetti
gli zeri. La quantità di zeri nei prezzi delle loro opere fa la differenza
ancora prima di vedere il tipo di lavoro. Non è un lamento, il mio, ma una
constatazione.


Come vieni visto da fuori, quale identità prevale?


Ne parlavo poco tempo fa con Jerome Sans. Nel mondo dell'arte la possibilità
di avere il riconoscimento in diverse espressioni creative è diverso a
seconda degli ambiti di provenienza. Se sei etichettato come musicista che
fa il pittore sei un imbecille, mentre sei un pittore affermato e fai performance
con la chitarra o la batteria allora sei un genio.


Cos'è, una sudditanza della musica rispetto all'arte visiva?

No, ma penso che l'arte goda di maggior credibilità. Guarda che differenza
c'è in Italia tra il dare del “maestro” a un musicista oppure dirlo ad uno
scultore. Hanno una risonanza tutta diversa. Mentre in America David Byrne
è sempre lui, che faccia i Talking Heads o le sue installazioni d'arte.

 

E qui tocchiamo un'altra figura per te significativa, immagino...
Sì e con Bluvertigo lo abbiamo portato in giro per Milano. Ricordo che lo abbiamo
portato a vedere Battiato in concerto.


E lui?


Era perplesso, Franco faceva una tournée molto coreografica con Sgalambro
e una spiaggia per scenografia, con tanto di sdraio. Anche al concerto Byrne
sembrava un iperteso con il cervello in continua azione.


Immagini che Battiato sia stato un esempio per te, per la sperimentazione
della musica elettronica...


Ho percepito “Pollution” meno di quanto non abbia apprezzato “La voce
del padrone”, che è l'opera omnia di Franco. Rendeva semplice qualcosa di
complesso, era più forte di qualsiasi fase di sperimentazione.


La tua pittura è segnata dall'uso dei colori fluorescenti, da dove nasce
questa scelta?


Da piccolo ero folgorato dai cartelli “affittasi” e “vendesi”. Dopo ho scoperto
che con la frequenza di 30Hertz questi colori si accendono più di altri.
E poi da adolescente giravo nelle discoteche e mi affascinava la lampada
di Wood. Scoprire dopo come il cervello reagisce a questo tipo di stimoli ha
prodotto una fascinazione potente.


Come è nata Fluon?


Vivevo con un amico Roberto Bottazzi, designer del gioiello, ed eravamo all'interno
di questa casa scapestrata che era un perfetto luogo di lavorazione.
Potevamo sporcare e provare qualsiasi cosa. Da questa esperienza,
nel 1997 ho creato Fluon con Fabrizio Grigolo e Thim Veraldi, il mio manager.
Fluon è una stazione creativa che si modula a seconda delle necessità.
Può diventare un teatro di posa, uno spazio espositivo per creazioni e per
performance di ogni tipo. Come quella che propongo in questa mostra, fatta
con Fabio Mittino, musicista che appartiene alla scuola di Guitar Cratf fondata
da Robert Fripp e basata su un rapporto diverso con la chitarra.


La tua cultura si è formata durante la nascita della disco e poi con la
club culture. Oggi frequenti ancora le discoteche?


Sì, ma da dee jay. Mi piacciono le feste in posti in disuso. Oggi si trovano
cose interessanti in giro, anche se rispetto a prima siamo in un periodo storico
in cui la creatività musicale è boicottat, i locali sono soggetti a lobby
burocratiche fatte di geometri e da coloro che rilasciano i permessi. Diventa
frustrante. Non c'è interesse a divulgare la cultura musicale e il fastidio nei
confronti della musica alta è prioritario rispetto al promuovere cultura.

Come è iniziata la decadenza?


Negli anni 2000 il cambio generazionale ha interrotto quella predisposizione
alla ricerca del nuovo notavo quando da giovane ero in giro per i locali.
Poi l'esigenza di club è cambiata: volevano vendere la birra e della
musica non importava più, così via alle le cover di Ligabue o di Vasco. Colpa
anche della televisione. Se da piccolo io sognavo di vedere Bowie o i Depeche
Mode su Videomusic oggi i più giovani hanno i tronisti e i reality
come programmi di riferimento.


Tu vivi a Monza, dove sei nato. Che rapporto hai con la città?


In realtà vivo ai bordi di Monza, non è una città predisposta a chissà cosa.
Però ho avuto la fortuna di frequentare la scuola d'arte. Era meraviglioso il
clima energetico e il metodo didattico che avevano: era sperimentale e
permetteva la complicità tra insegnanti e allievi. Ricordo che bigiavo la
classe per usare il laboratorio della scuola dove sperimentare con le tecnologie,
seguendo mie idee. Poi a Milano ho studiato all'Accademia delle
arti applicate , illustrazione ma anche le tecnologie di stampa. La mia insegnante
Luisa Bono mi disse, i bordi neri son una tua peculiarità.


L'organizzazione è un aspetto importante del tuo lavoro multidiscliplinare?

Sono caotico e dispersivo, surrenale direbbero gli orientali. Ho vampate
creative che tendono a disperdersi. Per questo avere a che fare con persone
che organizzano mi permette di sviluppare progetti. Senza disciplina ne
portirei a compimento uno su dieci.


Nella tua vita ha avuto un ruolo decisivo anche il pattinaggio...


Sì, quello artistico a rotelle. Sono stato insegnate di pattinaggio ed ho inventato
un metodo per insegnare i rollerblade. Avere un impegno agonistico
nell'adolescenza ti permette di avere dedizione e di studiare qualcosa
nel dettaglio. È molto utile per quello che farai da grande.


Che tipo è Andy?


Un esibizionista, già da quando facevo il chirichetto a messa. Era un momento
di show al massimo livello. Nel pattinaggio ho proseguito, mi piaceva
essere solo in mezzo alla pista, che poi è lo stesso che mettersi in
scena nei concerti o in una mostra. Mi piace l'idea di dover rendere al massimo
nel momento in cui tutti gli occhi sono puntati su di te.


Ma la pittura è anche molto intima, nel senso che si dipinge in studio
da soli...


L'arte è più duratura. Il concerto finisce, la mostra dura. È la messa in scena
di quello che provi in studio, è aprirsi. Ma se devo dire, mi sento messo a
nudo in pari modo nelle due attività. È una intensità psichica e chimica di
pari grado.


Spesso nelle tue opere usi l'ironia, quanto conta per te?


L'autoironia è un ottimo modo per avere un percorso creativo ed esistenziale
soddisfacente. Tutte le fuoriuscite dai pozzi neri che ho avuto, sono
state esaltate dall'autoironia. Io sono coloratissimo ed espansivo, ma
quando arriva la nube nera è terribile. Sono sensibile e seguo le pratiche
orientali per ricentrare la mia energia. Ma l'autoironia la prendo molto sul
serio, infatti sono spesso molto serio quando dico una “minchiata”.