Punti di Vista

ANDY E I SUOI CORTOCIRCUITI

15/10/2009

testo critico di Fabiola Naldi

Mentre pensavo ai contenuti di questo breve saggio a distanza di diversi anni dall’ultimo mio testo critico per Andy, mi sono resa conto che il 2009 segna, per la nostra lunga amicizia e collaborazione, un piccolo ma importante anniversario. Dieci anni esatti sono passati dalla nostra prima collaborazione per una parte del settore artistico di Palazzo Bonoris all’interno del festival BresciaMusicArt. Non credo di sbagliare nel dire che quell’episodio segnò sia per la sottoscritta sia per Andy il primo passo verso una lunga catena di esperienze, a volte insieme, molte volte separati. Il decennio si è così svolto fra grandi successi, numerose soddisfazioni e altrettanti momenti di riflessione obbligatori per giungere fino a qui. E qui ci siamo ritrovati, non ci siamo mai persi in realtà, ma ci siamo ritrovati artisticamente. Su Andy è stato detto e scritto molto: ho letto alcuni testi che altri miei colleghi hanno realizzato che parlano giustamente di atteggiamento analitico tipicamente Pop, in cui ovviamente si intende l’ingordigia visiva tipica del movimento degli anni sessanta di utilizzare e rivitalizzare ogni passaggio del nostro immaginario collettivo. Fu, senza entrare nell’ovvietà storico artistica, proprio la Pop Art a prendere atto della nascita di un gigantesco universo di consumi popolari: una grande abbuffata verso un atteggiamento industriale - produttivo di massa che stabiliva un’immanente coscienza critica nel tentativo di intraprendere il riscatto estetico e il salvataggio del disvalore di tutto ciò che fino ad allora non si considerava arte. Oltre a questo tutto il resto è veramente storia. E’ giusto partire dalla Pop ma il procedimento artistico/estetico di Andy è andato molto oltre. Giustamente direi, perché Andy non appartiene a quella generazione, ovvero a quella compagine di operatori culturali nati intorno agli anni ’30-’35 del Novecento. Andy, esattamente come colei che sta scrivendo, appartiene a pieno alla generazione dei nati intorno agli anni settanta. Siamo noi i veri “parassitari” di un universo immaginario pregno di un unico grande referente: l’immagine televisiva. Quella televisione, prima in bianco e nero e poi a colori, che ha decorato ogni piccolo ambito nella nostra memoria visiva, alimentando fantasie, condensazioni narrative e stravolgimenti sensibili fra ciò che realmente accadeva e ciò che si costruiva. Mi riferisco a una sorta di storia dell’immagine parallela fatta di cartoni animati, di pubblicità, di film, di videoclip, di fiction che nel tempo si sono trasformati in perfette icone di un periodo preciso: gli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Noi siamo tutti quei racconti, tutti quei disegni, tutte quelle canzoni, tutti quei colori che ora si setacciano minuziosamente alla ricerca di nuovi stimoli culturali. Come negli anni sessanta i pop artisti accostavano liberamente elementi massmediali opposti, creando una commistione inaspettata fra contesti materiali e culturali, noi siamo coloro che, ripetendo differentemente e normalizzando tale pratica di quantificazione, hanno rigurgitato la storia dell’immagine, saturando in un unico grande corto circuito realtà e finzione. Basta guardare i referenti visivi dei quadri, come dei mobili, degli abiti e di tutto ciò che può essere letteralmente invaso dal questo tipo di catapulta immaginaria: può essere Botticelli, Leonardo, Michelangelo, Matisse, Boccioni come Actarus, Lady Oscar, Candy Candy, Occhi di Gatto, gli Aristogatti o ancora una sedia, un comodino, una cornice, un paio di scarpe, una giacca. Il corto circuito intrapreso nell’istante in cui si affiancano due elementi materiali o culturali trascende il semplice accostamento trasfigurandolo con forza in una sospensione “elettrica”. Con parole più semplici il cortocircuito, come riporta il vocabolario, è una "connessione a bassa resistenza, generalmente accidentale, fra due elementi di un circuito elettrico, in genere accompagnato da anormale aumento della corrente". Guardando la produzione artistica di Andy siamo di fronte a qualcosa di similare proprio nel momento in cui accade quel tipo di sospensione che serve per generare altra potenza visiva. E come accade anche nel vecchio televisore con tubo catodico quando viene spento e l’ultima immagine rimane in memoria per un breve istante sul monitor, così accade nello sguardo famelico e analitico di Andy che trattiene ogni memoria a breve e la ricontestualizza, saturandola con accostamenti azzardati ma estremamente potenti. Gli istanti pittorici di Andy sono la riconoscibile trasposizione di un’intera generazione che immediatamente riconosce e si riconosce in tali azzardi formali e cromatici. L’utilizzo di soggetti appartenenti a contesti opposti, e la trasposizione sui più diversi materiali con colori fluorescenti e dichiaratamente artificiali, non sono altro che un tipico riversaggio da una zona del visibile all’altra dato dalla rivitalizzazione di un preciso recupero. Potremmo aggiungere che quei colori “sparati e tamarri”, come dice lo stesso Andy, sono la scarica d’energia che subisce tutto ciò che la memoria privata dell’artista fa divenire collettiva. Sono vere e proprie macchie cacofoniche di colore, stese secondo la tecnica dell’à plàt che ricorda sicuramente lo stile simbolista di fine Ottocento ma che è dichiaratamente omologo alla struttura visiva del fumetto, del televisore, del computer. Si tratta quasi di un tuffo concettuale nel mondo della secondarietà, reso più tangibile dall’intervento primario del gesto pittorico e fuso letteralmente tramite la sintesi e la condensazione di elementi opposti. Siamo d’accordo allora nel ripeterci parlando di Pop ma è altrettanto giusto ricordare un altro grande momento della storia artistica del Novecento, in questo caso italiana, che invase l’ambiente con un atteggiamento di vita mai tradito. Mi riferisco al Futurismo e, in particolar modo, al Secondo Futurismo iniziato con il manifesto La ricostruzione futurista dell’universo pubblicato nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero. Proprio Balla, nella Roma dei primi due decenni del Novecento, aprirà le Case d’Arte dimostrando che l’intenzione futurista non si limitava all’espressioni classiche dell’arte bensì si ribaltava in ogni ambito del vivere quotidiano. E così fu: moda, architettura d’interni, quadri, la vita doveva essere futurista in ogni sua ambientazione e manifestazione. Giacomo Balla ha rappresentato per le successive generazioni di artisti molto di più di altri suoi colleghi proprio per questo environment culturale che non tralasciava nulla. Andy ha in sé anche un piccolo gene futurballa ovviamente contestualizzato nel proprio momento storico.