testo critico di Ivan Quaroni
Fin dalla sua comparsa negli anni Sessanta, fu chiaro che l’Arte Pop, con il suo
potenziale comunicativo, sarebbe stata qualcosa di più di un semplice movimento
artistico. Il suo codice immediato, la sua capacità di riproporre alla coscienza
collettiva immagini prelevate dalla cultura di massa avrebbe fatto scuola.
Mentre la Pop Art tradizionale, quella di Andy Warhol, Claes Oldenburg,
Tom Wesselmann, James Rosenquist e Roy Lichtenstein, veniva archiviata come
espressione artistica degli anni del boom economico e dell’ascesa di una
nuova cultura consumistica, la sua attitudine a mescolare immagini colte e popolari
diventava, invece, un comune denominatore per molti artisti successivi,
da Jean Michel Basquiat a Keith Haring, da Ronnie Cutrone ai graffitisti degli
anni Ottanta.
Senza la Pop Art, mi chiedo se avremmo mai conosciuto le espressioni artistiche
legate alla street culture, se avremmo mai assistito alla nascita dell’underground
e della lowbrow art, influenzate dai fumetti, dalle subculture dello skate
e del surf. La Pop ha squarciato il velo omertoso dell’arte “colta”, ha scardinato
il dominio ideologico dei minimalismi e dei concettualismi, aprendo la
strada a tutte le espressioni dell’arte popolare. Grazie ad essa, sono arrivati sulla
tela i prodotti di consumo, le star di Hollywood, gli idoli del rock, i personaggi
dei cartoon, i supereroi dei fumetti, le pin up e le playmate, le automobili
e le marche di sigarette, gli uomini politici e i capi di stato. Insomma, grazie
ad essa, l’universo intero si è riversato dentro i sacri confini dell’arte, innescando
un liberatorio processo d’imbastardimento dei codici e dei linguaggi
che prosegue anche oggi. La Pop Art ha fatto capire agli artisti che, da quel momento
in avanti, avrebbero potuto mettere nelle loro opere qualsiasi cosa gli
fosse passata per la testa: le loro passioni, i loro miti, le loro muse, perfino i loro
cantanti preferiti. La Pop ebbe tutti questi meriti, ma fu l’esplosione del Punk
a dare la spallata definitiva allo snobismo del sistema dell’arte, consentendo a
tanti giovani di esprimere liberamente la propria creatività attraverso la magia
combinatoria del Do It Yourself (fattelo da te), che inaugurava sulle fanzine, sui
volantini, sui poster e sulle copertine dei dischi un nuovo tipo di arte, basata su
collage di immagini fotocopiate e proclami perentori, in un mesh upassolutamente
unico di Dadaismo, Situazionismo, Esistenzialismo, Futurismo,
Costruttivismo e Bauhaus. L’arte Punk, ammesso che se ne possa parlare in questi
termini, ha estremizzato il messaggio della Pop, liberando le energie distruttive
che venivano dal basso, dai giovani della working class inglese che frequentavano
gli istituti d’arte (The Clash) e si davano appuntamento nei negozi
di Malcom McLaren e Vivienne Westwood (Sex Pistols). I semi della grafica
punk di Jamie Reid e del Combat Styledi Strummer e compagni hanno indelebilmente
marcato le generazioni future, gettando le basi per quanto sarebbe
successo poi nella scena hardcore californiana, ad esempio con il sodalizio tra
Raymond Pettibon e i Black Flag. Eppure, come sostiene il critico musicale
Simon Reynolds, a ben vedere quella punk fu una rivoluzione incompleta. Fu
invece il movimento post-punk, e segnatamente la cosiddetta New Wave, a
proporsi come una vera e propria avanguardia modernista, con un immaginario
che “si ricollegava alle avanguardie dell’arte figurativa, all’architettura del
Novecento e alla scrittura futuribile di Ballard, Burroghs e Dick”1 .
La Pop des més rêves
L’intreccio e l’interscambio tra arte contemporanea e musica pop negli anni
Ottanta fu la conseguenza di un’attitudine eclettica, ma anche profondamente
pop, a mescolare suggestioni e stili di diversa estrazione. Nei primi anni di quel
meraviglioso decennio, forse l’ultimo veramente creativo, le frange più avanguardiste
del rock si distinguevano per la loro capacità di innestare sulle note
di un inedito sound elettrico un apparato visivo altrettanto originale. L’arte traboccava
dalle copertine dei dischi e dai manifesti dei concerti. Era già successo
nei decenni precedenti, con gli artwork di Andy Warhol per Velvet
Underground, Rolling Stones, Paul Anka, con i beatlesiani White Album di
Richard Hamilton e Sgt. Pepper’s di Peter Blake, ma questa volta il fenomeno
non era isolato. Preannunciate, già nella seconda metà degli anni Settanta, dai
i ritratti di Robert Mapplethorpe per le copertine dei dischi di Patty Smith, dai
lavori di Robert Frank per i Kraftwerk o di Bruce Weber per Marianne Faithfull,
le collaborazioni tra artisti e musicisti negli anni Ottanta sono diventate frequentissime.
Ecco allora i dipinti di Don van Vliet per Captain Beefheart, i disegni
di Raymond Pettibon per i Black Flag, le foto di Anton Corbijn per gli U2
e per Morrisey, gli scatti di Richard Kern per i Sonic Youth e i graffiti di Keith
Haring per Malcom McLaren.
E poi, ancora, Robert Rauschenberg per Speaking in Tonguesdei Talking Heads
(1983), Kenny Sharf per Bouncing Off The Satellite dei B-52’s (1986), H. R.
Giger per Koo Koo di Debbie Harry (1981), Gerhard Richter per Daydream
Nation dei Sonic Youth (1988), Pierre et Gilles per Disco Rough dei
Matematique Modernes (1980), ma anche Herb Ritts per True Bluedi Madonna
(1986), Irving Penn per Tutu di Miles Davis (1986) e Annie Leibowitz per Born
in the USA di Bruce Springsteen (1984).
Nello stesso periodo anche in Italia crescevano fruttuose collaborazioni, come
quella tra Occhiomagico (alias Giancarlo Maiocchi) e i Matia Bazar, per i quali
l’artista realizzò le copertine degli album Parigi, Berlino, Londra (1981) e
Aristocratica (1984), il videoclip di Aristocratica e gli allestimenti scenografici
dei concerti. Con le postmoderne scenografie del tour Parigi, Berlino, Londra
inizia anche la collaborazione tra i Matia Bazar e Alessandro Mendini, che sfocierà
poi nel curioso episodio di Architettura sussurrante (1983), una compilation
pubblicata su etichetta Ariston su testi dell’illustre architetto. L’ ensemble
teatrale dei fiorentini Krypton è invece l’artefice dell’incontro tra Alfredo Pirri e
i Litfiba per lo spettacolo Eneide (1983-84), mentre nel 1986 ancora
Occhiomagico cura la copertina dell’album Il Fiume del waver comasco
Garbo. Ecco, questo è il clima culturale, il background da cui prende le mosse,
almeno idealmente, l’arte pop di Andy, che procede parallelamente alla sua attività
di musicista e compositore, sia come tastierista dei Bluvertigo che come
solista.
Se si vuole trovare un origine al pop fluorescente e levigato di Andy, senza insistere
troppo sulle evidenti ascendenze warholiane (quale artista neopop non
ne è stato influenzato?), bisogna risalire proprio a quei formidabili anni. Anni
in cui, come scrisse Pier Vittorio Tondelli nel suo Un weekend postmoderno
(1990), “la giovanile ed eclettica fauna del ‘postmoderno di mezzo mischia e
confonde immagini, atteggiamenti e toni con la prerogativa non già di sconfessarsi
ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trova-
re un’inedita vitalità espressiva proprio nel fluttuare delle combinazioni e nell’attraversamento
dei detriti vestimentali”2. Già, perché, dimenticavo di dire,
negli Ottanta l’arte non stava solo sulle copertine dei dischi e sui manifesti, ma
contaminava anche l’abbigliamento, il make up, insomma il look. Una brutta
parola inglese, per fortuna passata di moda, che indicava il modo di vestire e
di truccarsi, ma soprattutto di “sentire” e di vivere la contemporaneità.
Il merito di quel decennio fu di portare l’arte nella vita quotidiana di molti giovani.
E così, tramite le suggestioni visive dei gruppi pop e new wave, l’arte conquistava
nuovi spazi nella vita quotidiana attraverso l’abbigliamento, il maquillage
e persino il modo di comportarsi.
Qui nasce la sensibilità di Andy, qui si formano i suoi gusti musicali, ma anche
artistici. Il Pop di Andy, infatti, non ha niente a che vedere con le tendenze contemporanee
del New Pop.
È lontanissimo sia dal Pop Surrealism di Mark Ryden e Marion Peck, sia dallo
snobismo intellettuale del New Folk di Marcel Dzama e Jules De Balincourt.
Non ha nulla a che vedere nemmeno con l’immaginario Superflat di Takashi
Murakami e Yoshitomo Nara, in bilico tra tradizione figurativa giapponese e
cultura manga.
Andy ha mutuato da Warhol il gusto di ritrarre musicisti e personaggi dello star
system, icone sacre ed eroi dei cartoon, stilisti e top model, ma il suo stile è
piuttosto il risultato diretto degli influssi della grafica glamour targata eighties.
Diplomatosi proprio in illustrazione e grafica pubblicitaria all’Accademia di
Arti Applicate di Milano, Andy non ignora di certo le splendide tavole di Patrick Nagel, autore, tra l’altro, dell’indimenticabile copertina di Rio dei Duran Duran
(1982). I suoi toni piatti, quasi illustrativi, le pose dei suoi soggetti, certi primi
piani di modelle o di personaggi della tv vengono da quel tipo d’impostazione,
mentre i colori sparati, quegli acrilici fluorescenti che sembrano illuminare
la tela come fosse un light box, quelli sono il segno inconfondibile della sua sigla
stilistica, nata da un perfetto incrocio tra le cromie di Keith Haring e i toni
pastello di Fiorucci.
La luminosità elettrica dei quadri di Andy, giocata sul contrasto tra colori primari,
è forse alla base anche del rapporto d’elezione, poi sfociato in molteplici
collaborazioni, con l’ex neofuturista Marco Lodola, che proprio sulla luce ha
fondato la sua fortuna d’artista.
Nei lavori di Andy c’è tutto il suo mondo, tutto il suo immaginario, un distillato
purissimo di arte, musica e spettacolo.
Come ha scritto Red Ronnie, i suoi quadri “sono storie sintetizzate in uno scatto
fotografico”. Ma le sue “istantanee” sono distanti mille miglia dalla realtà,
immerse in un universo di teatralità e trasformismo, in cui si addensano grumi
di fiabe futuribili, sprazzi malinconici e decadenti rêverie in salsa acida.
Ecco allora i ritratti saturi della new wave e dell’avant-pop, dai Joy Divsion ai
Kraftwerk, da Robert Smith ai Devo e poi Nico senza Velvet Underground, Sid
Vicious senza Sex Pistols e, ancora, i Kiss, Madonna, Diamanda Galas, Kurt
Cobain, Michael Jackson e David Bowie, quest’ultimo dipinto in tutte le versioni,
da quella glam di Aladdin Sane a quella berlinese di Low. Ma non c’è solo
la mitologia rock nei dipinti di Andy. C’è anche la nostalgia per i cartoni ani-
mati dell’infanzia, quelli made in Japan come Capitain Harlock e Goldrake e
quelli francesi come Asterix e i Barbapapà; ci sono divi dell’arte come Dalì e
Warhol e del cinema come Marilyn e la Bardot; ci sono top model come Kate
Moss e Linda Evangelista e Vip come Lady D e Condolezza Rice. E poi, tra i
Gesù psichedelici e le Madonne pop, spuntano i tributi alla femminilità giapponese,
alle Geishe che sembrano uscite dalle pagine dei romanzi di Yukio
Mishima e Yasunari Kawabata. Anche se, in realtà, viene il sospetto che queste
Madame Butterfly siano il frutto di un Japonismedi maniera, di una fascinazione
culturale che proprio negli anni Ottanta attraversava non solo la musica (prima
i Japan, poi David Sylvian con la complicità di Ryuichi Sakamoto), ma perfino
il cinema. Basti pensare all’ambiguo lirismo di Furyo. Merry Christmas Mr.
Lawrence (in verità girato dal giapponese Nagisa Oshima, ma con una produzione
anglo-nippo-neozelandese) o al bellissimo thriller di Ridley Scott, Black
Rain - Pioggia sporca.
Insomma l’universo pittorico di Andy è affollato di suggestioni e citazioni ben
precise, come i dati di una carta d’identità, anzi come la mappatura di un
DNA, capace di rivelare i tratti genetici dell’artista. Per questo, qualunque cosa
faccia, si tratti di quadri o di complementi d’arredo, di parati ornamentali o
di manichini da sartoria, di pianoforti o di pannelli pubblicitari, la sua opera ha
sempre il merito di rivelare nient’altro che la sua personalità. Una personalità,
si dirà, un po’ teatrale, troppo sofisticata, quasi snaturata, in una parola artefatta,
cioè “fatta ad arte”. Ma d’altronde, scriveva Oscar Wilde, "Essere naturali è
solo una posa, e la più irritante che io conosca”.