Punti di Vista

retroverso

16/12/2006

testo critico di Ivan Quaroni

Fin dalla sua comparsa negli anni Sessanta, fu chiaro che l’Arte Pop, con il suo

potenziale comunicativo, sarebbe stata qualcosa di più di un semplice movimento

artistico. Il suo codice immediato, la sua capacità di riproporre alla coscienza

collettiva immagini prelevate dalla cultura di massa avrebbe fatto scuola.

Mentre la Pop Art tradizionale, quella di Andy Warhol, Claes Oldenburg,

Tom Wesselmann, James Rosenquist e Roy Lichtenstein, veniva archiviata come

espressione artistica degli anni del boom economico e dell’ascesa di una

nuova cultura consumistica, la sua attitudine a mescolare immagini colte e popolari

diventava, invece, un comune denominatore per molti artisti successivi,

da Jean Michel Basquiat a Keith Haring, da Ronnie Cutrone ai graffitisti degli

anni Ottanta.

Senza la Pop Art, mi chiedo se avremmo mai conosciuto le espressioni artistiche

legate alla street culture, se avremmo mai assistito alla nascita dell’underground

e della lowbrow art, influenzate dai fumetti, dalle subculture dello skate

e del surf. La Pop ha squarciato il velo omertoso dell’arte “colta”, ha scardinato

il dominio ideologico dei minimalismi e dei concettualismi, aprendo la

strada a tutte le espressioni dell’arte popolare. Grazie ad essa, sono arrivati sulla

tela i prodotti di consumo, le star di Hollywood, gli idoli del rock, i personaggi

dei cartoon, i supereroi dei fumetti, le pin up e le playmate, le automobili

e le marche di sigarette, gli uomini politici e i capi di stato. Insomma, grazie

ad essa, l’universo intero si è riversato dentro i sacri confini dell’arte, innescando

un liberatorio processo d’imbastardimento dei codici e dei linguaggi

che prosegue anche oggi. La Pop Art ha fatto capire agli artisti che, da quel momento

in avanti, avrebbero potuto mettere nelle loro opere qualsiasi cosa gli

fosse passata per la testa: le loro passioni, i loro miti, le loro muse, perfino i loro

cantanti preferiti. La Pop ebbe tutti questi meriti, ma fu l’esplosione del Punk

a dare la spallata definitiva allo snobismo del sistema dell’arte, consentendo a

tanti giovani di esprimere liberamente la propria creatività attraverso la magia

combinatoria del Do It Yourself (fattelo da te), che inaugurava sulle fanzine, sui

volantini, sui poster e sulle copertine dei dischi un nuovo tipo di arte, basata su

collage di immagini fotocopiate e proclami perentori, in un mesh upassolutamente

unico di Dadaismo, Situazionismo, Esistenzialismo, Futurismo,

Costruttivismo e Bauhaus. L’arte Punk, ammesso che se ne possa parlare in questi

termini, ha estremizzato il messaggio della Pop, liberando le energie distruttive

che venivano dal basso, dai giovani della working class inglese che frequentavano

gli istituti d’arte (The Clash) e si davano appuntamento nei negozi

di Malcom McLaren e Vivienne Westwood (Sex Pistols). I semi della grafica

punk di Jamie Reid e del Combat Styledi Strummer e compagni hanno indelebilmente

marcato le generazioni future, gettando le basi per quanto sarebbe

successo poi nella scena hardcore californiana, ad esempio con il sodalizio tra

Raymond Pettibon e i Black Flag. Eppure, come sostiene il critico musicale

Simon Reynolds, a ben vedere quella punk fu una rivoluzione incompleta. Fu

invece il movimento post-punk, e segnatamente la cosiddetta New Wave, a

proporsi come una vera e propria avanguardia modernista, con un immaginario

che “si ricollegava alle avanguardie dell’arte figurativa, all’architettura del

Novecento e alla scrittura futuribile di Ballard, Burroghs e Dick”1 .

La Pop des més rêves

L’intreccio e l’interscambio tra arte contemporanea e musica pop negli anni

Ottanta fu la conseguenza di un’attitudine eclettica, ma anche profondamente

pop, a mescolare suggestioni e stili di diversa estrazione. Nei primi anni di quel

meraviglioso decennio, forse l’ultimo veramente creativo, le frange più avanguardiste

del rock si distinguevano per la loro capacità di innestare sulle note

di un inedito sound elettrico un apparato visivo altrettanto originale. L’arte traboccava

dalle copertine dei dischi e dai manifesti dei concerti. Era già successo

nei decenni precedenti, con gli artwork di Andy Warhol per Velvet

Underground, Rolling Stones, Paul Anka, con i beatlesiani White Album di

Richard Hamilton e Sgt. Pepper’s di Peter Blake, ma questa volta il fenomeno

non era isolato. Preannunciate, già nella seconda metà degli anni Settanta, dai

i ritratti di Robert Mapplethorpe per le copertine dei dischi di Patty Smith, dai

lavori di Robert Frank per i Kraftwerk o di Bruce Weber per Marianne Faithfull,

le collaborazioni tra artisti e musicisti negli anni Ottanta sono diventate frequentissime.

Ecco allora i dipinti di Don van Vliet per Captain Beefheart, i disegni

di Raymond Pettibon per i Black Flag, le foto di Anton Corbijn per gli U2

e per Morrisey, gli scatti di Richard Kern per i Sonic Youth e i graffiti di Keith

Haring per Malcom McLaren.

E poi, ancora, Robert Rauschenberg per Speaking in Tonguesdei Talking Heads

(1983), Kenny Sharf per Bouncing Off The Satellite dei B-52’s (1986), H. R.

Giger per Koo Koo di Debbie Harry (1981), Gerhard Richter per Daydream

Nation dei Sonic Youth (1988), Pierre et Gilles per Disco Rough dei

Matematique Modernes (1980), ma anche Herb Ritts per True Bluedi Madonna

(1986), Irving Penn per Tutu di Miles Davis (1986) e Annie Leibowitz per Born

in the USA di Bruce Springsteen (1984).

Nello stesso periodo anche in Italia crescevano fruttuose collaborazioni, come

quella tra Occhiomagico (alias Giancarlo Maiocchi) e i Matia Bazar, per i quali

l’artista realizzò le copertine degli album Parigi, Berlino, Londra (1981) e

Aristocratica (1984), il videoclip di Aristocratica e gli allestimenti scenografici

dei concerti. Con le postmoderne scenografie del tour Parigi, Berlino, Londra

inizia anche la collaborazione tra i Matia Bazar e Alessandro Mendini, che sfocierà

poi nel curioso episodio di Architettura sussurrante (1983), una compilation

pubblicata su etichetta Ariston su testi dell’illustre architetto. L’ ensemble

teatrale dei fiorentini Krypton è invece l’artefice dell’incontro tra Alfredo Pirri e

i Litfiba per lo spettacolo Eneide (1983-84), mentre nel 1986 ancora

Occhiomagico cura la copertina dell’album Il Fiume del waver comasco

Garbo. Ecco, questo è il clima culturale, il background da cui prende le mosse,

almeno idealmente, l’arte pop di Andy, che procede parallelamente alla sua attività

di musicista e compositore, sia come tastierista dei Bluvertigo che come

solista.

Se si vuole trovare un origine al pop fluorescente e levigato di Andy, senza insistere

troppo sulle evidenti ascendenze warholiane (quale artista neopop non

ne è stato influenzato?), bisogna risalire proprio a quei formidabili anni. Anni

in cui, come scrisse Pier Vittorio Tondelli nel suo Un weekend postmoderno

(1990), “la giovanile ed eclettica fauna del ‘postmoderno di mezzo mischia e

confonde immagini, atteggiamenti e toni con la prerogativa non già di sconfessarsi

ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trova-

re un’inedita vitalità espressiva proprio nel fluttuare delle combinazioni e nell’attraversamento

dei detriti vestimentali”2. Già, perché, dimenticavo di dire,

negli Ottanta l’arte non stava solo sulle copertine dei dischi e sui manifesti, ma

contaminava anche l’abbigliamento, il make up, insomma il look. Una brutta

parola inglese, per fortuna passata di moda, che indicava il modo di vestire e

di truccarsi, ma soprattutto di “sentire” e di vivere la contemporaneità.

Il merito di quel decennio fu di portare l’arte nella vita quotidiana di molti giovani.

E così, tramite le suggestioni visive dei gruppi pop e new wave, l’arte conquistava

nuovi spazi nella vita quotidiana attraverso l’abbigliamento, il maquillage

e persino il modo di comportarsi.

Qui nasce la sensibilità di Andy, qui si formano i suoi gusti musicali, ma anche

artistici. Il Pop di Andy, infatti, non ha niente a che vedere con le tendenze contemporanee

del New Pop.

È lontanissimo sia dal Pop Surrealism di Mark Ryden e Marion Peck, sia dallo

snobismo intellettuale del New Folk di Marcel Dzama e Jules De Balincourt.

Non ha nulla a che vedere nemmeno con l’immaginario Superflat di Takashi

Murakami e Yoshitomo Nara, in bilico tra tradizione figurativa giapponese e

cultura manga.

Andy ha mutuato da Warhol il gusto di ritrarre musicisti e personaggi dello star

system, icone sacre ed eroi dei cartoon, stilisti e top model, ma il suo stile è

piuttosto il risultato diretto degli influssi della grafica glamour targata eighties.

Diplomatosi proprio in illustrazione e grafica pubblicitaria all’Accademia di

Arti Applicate di Milano, Andy non ignora di certo le splendide tavole di Patrick Nagel, autore, tra l’altro, dell’indimenticabile copertina di Rio dei Duran Duran

(1982). I suoi toni piatti, quasi illustrativi, le pose dei suoi soggetti, certi primi

piani di modelle o di personaggi della tv vengono da quel tipo d’impostazione,

mentre i colori sparati, quegli acrilici fluorescenti che sembrano illuminare

la tela come fosse un light box, quelli sono il segno inconfondibile della sua sigla

stilistica, nata da un perfetto incrocio tra le cromie di Keith Haring e i toni

pastello di Fiorucci.

La luminosità elettrica dei quadri di Andy, giocata sul contrasto tra colori primari,

è forse alla base anche del rapporto d’elezione, poi sfociato in molteplici

collaborazioni, con l’ex neofuturista Marco Lodola, che proprio sulla luce ha

fondato la sua fortuna d’artista.

Nei lavori di Andy c’è tutto il suo mondo, tutto il suo immaginario, un distillato

purissimo di arte, musica e spettacolo.

Come ha scritto Red Ronnie, i suoi quadri “sono storie sintetizzate in uno scatto

fotografico”. Ma le sue “istantanee” sono distanti mille miglia dalla realtà,

immerse in un universo di teatralità e trasformismo, in cui si addensano grumi

di fiabe futuribili, sprazzi malinconici e decadenti rêverie in salsa acida.

Ecco allora i ritratti saturi della new wave e dell’avant-pop, dai Joy Divsion ai

Kraftwerk, da Robert Smith ai Devo e poi Nico senza Velvet Underground, Sid

Vicious senza Sex Pistols e, ancora, i Kiss, Madonna, Diamanda Galas, Kurt

Cobain, Michael Jackson e David Bowie, quest’ultimo dipinto in tutte le versioni,

da quella glam di Aladdin Sane a quella berlinese di Low. Ma non c’è solo

la mitologia rock nei dipinti di Andy. C’è anche la nostalgia per i cartoni ani-

mati dell’infanzia, quelli made in Japan come Capitain Harlock e Goldrake e

quelli francesi come Asterix e i Barbapapà; ci sono divi dell’arte come Dalì e

Warhol e del cinema come Marilyn e la Bardot; ci sono top model come Kate

Moss e Linda Evangelista e Vip come Lady D e Condolezza Rice. E poi, tra i

Gesù psichedelici e le Madonne pop, spuntano i tributi alla femminilità giapponese,

alle Geishe che sembrano uscite dalle pagine dei romanzi di Yukio

Mishima e Yasunari Kawabata. Anche se, in realtà, viene il sospetto che queste

Madame Butterfly siano il frutto di un Japonismedi maniera, di una fascinazione

culturale che proprio negli anni Ottanta attraversava non solo la musica (prima

i Japan, poi David Sylvian con la complicità di Ryuichi Sakamoto), ma perfino

il cinema. Basti pensare all’ambiguo lirismo di Furyo. Merry Christmas Mr.

Lawrence (in verità girato dal giapponese Nagisa Oshima, ma con una produzione

anglo-nippo-neozelandese) o al bellissimo thriller di Ridley Scott, Black

Rain - Pioggia sporca.

Insomma l’universo pittorico di Andy è affollato di suggestioni e citazioni ben

precise, come i dati di una carta d’identità, anzi come la mappatura di un

DNA, capace di rivelare i tratti genetici dell’artista. Per questo, qualunque cosa

faccia, si tratti di quadri o di complementi d’arredo, di parati ornamentali o

di manichini da sartoria, di pianoforti o di pannelli pubblicitari, la sua opera ha

sempre il merito di rivelare nient’altro che la sua personalità. Una personalità,

si dirà, un po’ teatrale, troppo sofisticata, quasi snaturata, in una parola artefatta,

cioè “fatta ad arte”. Ma d’altronde, scriveva Oscar Wilde, "Essere naturali è

solo una posa, e la più irritante che io conosca”.